Filiazione
In caso di riconoscimento da parte del padre del figlio naturale dopo che vi è stato il riconoscimento da parte della madre, il figlio naturale può assumere il cognome del padre anteponendolo a quello della madre.
Corte appello Ancona, 11 novembre 2003
Nell'ipotesi di figli nati fuori dal matrimonio, e non riconosciuti dal padre immediatamente o comunque contemporaneamente alla madre, è esclusa l'automatica imposizione del cognome paterno, con la conseguente applicazione dell'art. 262 c.c. che, nell'ambito della disciplina del riconoscimento del figlio naturale, regola l'attribuzione del cognome al figlio; pertanto il giudice, nel decidere in ordine alla richiesta di attribuzione al figlio naturale del cognome del padre che lo ha legittimato successivamente, dovrà valutare l'interesse esclusivo del minore, avuto riguardo al diritto del medesimo alla propria identità personale fino a quel momento posseduta nell'ambiente in cui è vissuto, anche con riferimento alla famiglia in cui è cresciuto, nonché ad ogni altro elemento di valutazione suggerito dalla fattispecie, escludendo ogni automaticità.
Cassazione civile, sez. I, 27 aprile 2001, n. 6098
Nell'ipotesi in cui il minore figlio naturale, riconosciuto dalla madre (della quale ha assunto il cognome) e successivamente dal padre (del quale ha assunto il cognome), venga legittimato, per provvedimento del giudice, prima dalla madre e poi dal padre, l'attribuzione del cognome paterno non avviene in via automatica (mancando tra i genitori un rapporto di coniugio); in una fattispecie siffatta va applicata, in via analogica, la disciplina sul cognome del minore prevista dall'art. 262 c.c.: il giudice, nel decidere in ordine alla richiesta del padre di attribuzione al figlio il proprio cognome, dovrà valutare esclusivamente l'interesse del minore, avuto riguardo al diritto dello stesso alla identità personale fino a quel momento goduta nell'ambiente in cui è vissuto, con riferimento anche alla famiglia nella quale è cresciuto, nonché ad ogni altro elemento di valutazione presente e rilevante nella fattispecie.
Cassazione civile, sez. I, 27 aprile 2001, n. 6098
Qualora manchi l'interesse alla conservazione dell'unità familiare trattandosi di figli nati fuori dal matrimonio e non riconosciuti dal padre, immediatamente o comunque contemporaneamente alla madre, non solo è esclusa per legge l'automatica imposizione del cognome paterno (ex art. 262 c.c.), ma deve essere riconosciuta al cognome già acquisito dal figlio, anche se non conforme al rapporto di filiazione, una propria autonoma tutela quale segno distintivo dell'identità personale fino ad allora da lui posseduta nell'ambiente in cui vive.
Cassazione civile, sez. I, 27 aprile 2001, n. 6098
Qualora il padre, che ha legittimato per provvedimento del giudice il figlio naturale successivamente alla madre, chieda di attribuirgli il proprio cognome trova applicazione analogica l'art. 262 c.c.; pertanto, dovrà valutarsi l'interesse esclusivo del minore, avuto riguardo al diritto del medesimo alla propria identità personale fino a quel momento posseduta nell'ambiente in cui è vissuto, anche con riferimento alla famiglia in cui è cresciuto, nonché ad ogni altro elemento di valutazione suggerito dalla fattispecie, esclusa ogni automaticità.
Cassazione civile, sez. I, 27 aprile 2001, n. 6098
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Riconoscimento
Nel procedimento previsto dall'art. 250, comma 4, c.c. il minore infrasedicenne non assume la qualità di parte, divenendo tale solamente all'esito della nomina del curatore speciale ai sensi dell'art. 78, comma 2, c.p.c. in presenza di un conflitto d'interessi con il genitore legale rappresentante che si oppone al riconoscimento da parte dell'altro genitore naturale, determinandosi in tal caso una sorta di intervento "iussu iudicis" del minore stesso, a mezzo del suddetto curatore. Ne consegue che la sentenza emessa a chiusura del procedimento deve essere notificata, ai fini della decorrenza del termine breve per la relativa impugnazione, anche al suddetto curatore, non determinandosi in difetto il passaggio in giudicato e la conseguente definitività della decisione, in ragione del mancato decorso di detto termine rispetto a tutte le parti in causa. (Principio enunciato nell'ambito di un giudizio concernente la domanda di equa riparazione dei danni - lamentati per effetto di una durata del giudizio ex art. 250, comma 4, c.c. prolungatasi, anche in ragione della condotta degli addetti alla cancelleria, per quattro anni e cinque mesi e dedotta come irragionevole in considerazione pure della particolare semplicità del rito camerale e della delicatezza della vicenda in questione - proposta seppur in difetto di notificazione della sentenza emessa a conclusione del giudizio - anche - al curatore speciale nominato alla minore, e dal giudice di merito dell'impugnazione nondimeno ritenuta conclusiva del procedimento all'esito del decorso del termine breve per l'impugnazione fatto decorrere dalla relativa notifica effettuata solamente ai genitori e al P.M.).
In tema di riconoscimento di figlio naturale, il diritto al rimborso delle spese sostenute, spettante al genitore che ha allevato il figlio nei confronti del genitore che procede al riconoscimento, non è utilmente esercitabile se non dal giorno del riconoscimento stesso (soltanto il riconoscimento comportando, ex art. 261 c.c., gli effetti tipici connessi dalla legge allo "status" giuridico di figlio naturale), con la conseguenza che detto giorno segna altresì il "dies a quo" della decorrenza della prescrizione del diritto stesso.
Cassazione civile, sez. I, 26 maggio 2004, n. 10124
Il criterio di adeguamento automatico dell'assegno di mantenimento a favore dei figli di genitori divorziati, previsto dall'art. 6, comma 11, l. 1 dicembre 1970 n. 898, come sostituito dall'art. 11 l. 6 marzo, 1987 n. 74, estensibile ad altri casi analoghi, attesi la funzione eminentemente assistenziale degli emolumenti cui inerisce e gli scopi, a tali casi comuni, di conservare inalterato il potere d'acquisto degli assegni, di limitare il ricorso a procedure di revisione e di ridurre la conflittualità fra le parti, trova applicazione anche all'assegno costituente il contributo di mantenimento stabilito a favore del figlio naturale ed a carico del genitore dichiarato tale dal giudice.
Cassazione civile, sez. I, 14 febbraio 2004, n. 2897
La disposizione dell'art. 250, comma 3, c.c. nel richiedere il consenso del genitore che per primo ha effettuato il riconoscimento, non conferisce alcun carattere vincolante od esclusivo alla valutazione di quest'ultimo, poiché ai sensi del successivo comma 4 del medesimo art. 250 c.c., il consenso non può essere rifiutato ove il riconoscimento risponda all'interesse del figlio e, in caso di opposizione al riconoscimento, la decisione spetta al giudice.
Cassazione civile, sez. I, 3 aprile 2003, n. 5115
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Prova per il riconoscimento
In tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il principio della libertà di prova sancito, in materia, dall'art. 269, comma 2, c.c. non è derogato dal limite imposto al giudice dalla disposizione di cui al successivo comma 4 della stessa norma di legge, e non tollera, pertanto, surrettizie limitazioni, nè mediante la fissazione di una sorta di gerarchia assiologia tra i mezzi di prova idonei a dimostrare la paternità o la maternità naturale, nè, conseguentemente, mediante l'imposizione al giudice di merito di una sorta di "ordine cronologico" nella loro ammissione ed assunzione, a seconda del "tipo" di prova dedotta, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova in materia pari valore per espressa disposizione di legge.
Cassazione civile, sez. I, 22 luglio 2004, n. 13665
In tema di giudizio per la dichiarazione giudiziale della paternità naturale e di acquisizione della prova della paternità, la eventuale non risolutività e conclusività delle risultanze degli accertamenti immunoematologici, non è di ostacolo, di per sè, alla utilizzazione e valorizzazione, da parte del giudice, di tutto il residuo complesso degli elementi probatori acquisiti nel corso dell'effettuata istruttoria.
Cassazione civile, sez. I, 18 maggio 2004, n. 9412
L'art. 269 c.c., nella sua attuale formulazione, non pone alcun limite in ordine ai mezzi di prova della paternità naturale, prova che può quindi fondarsi su elementi indiziari; in particolare, la dimostrazione dell'esistenza di rapporti sessuali tra madre e preteso padre durante il periodo del concepimento non ha carattere di indefettibilità, con la conseguenza che anche in mancanza di prova circa tali rapporti, il rifiuto ingiustificato del preteso padre di sottoporsi agli esami ematologici costituisce comportamento valutabile ai sensi dell'art. 116, comma 2, c.p.c.
Cassazione civile, sez. I, 3 aprile 2003, n. 5116
In tema di dichiarazione giudiziale di paternità, l'art. 269, comma 4, c.c. - secondo il quale la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra questa ed il preteso padre all'epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità naturale - non esclude che tali circostanze, nel concorso di altri elementi, anche presuntivi, possano essere utilizzate a sostegno del proprio convincimento dal giudice del merito. Questi infatti è dotato di ampio potere discrezionale e può legittimamente basare il proprio apprezzamento in ordine all'esistenza del rapporto di filiazione anche su risultanze probatorie indirette ed indiziarie, sempre indicando gli elementi su cui intende fondare la pronuncia ed in tal modo ritualmente disattendendo le argomentazioni (non menzionate specificamente) logicamente incompatibili con la decisione adottata. (Nell'affermare tale principio di diritto, la S.C. ha ritenuto correttamente motivata la pronuncia del giudice di merito che aveva fondato la propria pronuncia affermativa della paternità naturale su una motivazione - logicamente corretta - con cui era stata posta in evidenza l'univocità e convergenza degli elementi indiziari acquisiti al processo, come la lunga relazione sessuale intercorsa tra la madre ed il padre naturale, protrattasi ben oltre il tempo del concepimento, l'interesse manifestato da quest'ultimo per la bambina, anche con la richiesta di essere informato mensilmente sulla salute della piccola e la promessa di inviare denaro alla madre per contribuire al mantenimento della figlia).
Cassazione civile, sez. I, 21 febbraio 2003, n. 2640
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Annullamento matrimonio
Al fine dell'obbligazione indennitaria del coniuge cui sia imputabile la nullità del matrimonio, ai sensi dell'art. 129-bis c.c., il requisito della buona fede dell'altro coniuge, da presumersi fino a prova contraria, si identifica nella incolpevole ignoranza della specifica circostanza per la quale, nella concreta vicenda, è stata pronunciata la nullità; pertanto, in caso di declaratoria di invalidità, che sia stata resa dal giudice ecclesiastico, con sentenza dichiarata esecutiva nell'ordinamento interno, per esclusione del bonum prolis da parte di entrambi i coniugi, la presunzione di ignoranza è da ritenersi superata proprio perché la nullità matrimoniale è imputabile anche al coniuge che richiede l'indennità.
Cassazione civile, sez. I, 9 marzo 1995, n. 2734
Gli accordi fra coniugi in vista o nell'eventualità di una futura pronuncia di nullità del matrimonio sono validi non venendo in gioco, in questo caso, una determinazione delle parti in ordine allo scioglimento del vincolo coniugale, con la conseguenza che il principio di autonomia contrattuale non soffre alcuna compressione per ragioni di ordine pubblico.
Cassazione civile, sez. I, 13 gennaio 1993, n. 348
L'art. 123, comma 2, c.c., il quale nega l'azione di simulazione del matrimonio quando sia decorso un anno dalla celebrazione, ovvero si sia verificata la convivenza dei coniugi, detta due norme autonome e distinte, in quanto la prima attiene all'apposizione di un limite temporale all'esercizio dell'impugnazione, mentre la seconda assegna rilevanza alla costituzione del consorzio coniugale, ancorché in pendenza di quel termine, quale fatto di per sè idoneo a superare od elidere il pregresso accordo simulatorio. (Nella specie, con riguardo alla pronuncia della Corte d'appello, che aveva negato la deliberazione della sentenza di nullità del matrimonio concordatario resa dal tribunale ecclesiastico per l'esclusione di un bonum matrimonii, sul rilievo dell'inosservanza di entrambe dette disposizioni, previa qualificazione delle stesse come norme di ordine pubblico, la Corte Suprema ha dichiarato l'inammissibilità del ricorso per cassazione, che aveva contestato tale qualificazione solo con riferimento al limite temporale, stante la configurabilità di due diverse ragioni della decisione e la idoneità di quella non censurata a sorreggere la decisione medesima).
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